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L' emozione come linguaggio relazionale incarnato

  • Immagine del redattore: Gabriele Campello
    Gabriele Campello
  • 24 ago
  • Tempo di lettura: 10 min

Aggiornamento: 9 ott


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Introduzione

Le emozioni non sono semplici reazioni automatiche né meri indicatori interni del nostro stato d’animo. Esse rappresentano piuttosto forme di comunicazione incarnata: linguaggi silenziosi e potenti, capaci di posizionarci rispetto a noi stessi, agli altri e al mondo.

A partire dalla teoria costruttivista di Lisa Feldman Barrett, che interpreta le emozioni come costruzioni cerebrali fondate su concetti appresi, questo articolo propone un’estensione fenomenologica e relazionale della sua visione. L’intento è quello di integrare tale prospettiva con contributi provenienti dalla teoria del posizionamento di Harré, Moghaddam e Van Langenhove, della mente incarnata ed enattiva di Varela e Thompson, e dalla teoria della Trasformazione emotiva di Leslie Greenberg. L’obiettivo è articolare un modello più ampio, dinamico e multimodale della coscienza emotiva, capace di orientare anche la pratica clinica.

 

L’emozione come costruzione e posizionamento

Secondo Lisa Feldman Barrett, le emozioni non sono risposte universali, innate e automatiche, bensì costruzioni del cervello, il quale, nel suo costante lavoro di regolazione corporea e di previsione degli stati interni, genera l’esperienza emotiva combinando sensazioni, concetti emotivi appresi e il contesto ambientale.

Ma le emozioni non si limitano a regolare l’organismo: esse svolgono anche una funzione relazionale, posizionandoci nel mondo.

Ogni emozione implica infatti una presa di posizione:

-       nei confronti di una parte di noi stessi, come avviene nel conflitto tra desiderio e paura;

-       verso un altro, come nel caso della rabbia suscitata dalla violazione di un diritto;

-       oppure in rapporto all’ambiente più ampio, come accade nello stupore, nella noia o nel senso del limite.

Così come nella comunicazione interpersonale si distinguono a) un livello di contenuto e b) uno di relazione, anche nella comunicazione intrapsichica possiamo cogliere una differenziazione simile.

Mentre il contenuto viene spesso veicolato dal linguaggio verbale, il livello relazionale si esprime in modo più sottile, attraverso segnali affettivi, posture, toni e variazioni corporee.

Alla base della costruzione emotiva Barrett individua una dimensione preconcettuale chiamata “valenza affettiva”: una tonalità di fondo che segnala se qualcosa è positivo o negativo, attivante o calmante. È questa tonalità primaria, simile a una prima tinta emotiva del mondo, a guidare il cervello nell’assegnazione di significati e nell’orientamento all’azione.

Non si tratta di una semplice reazione, ma di un’organizzazione del senso che precede la parola, ma sarà solo attraverso categorie concettuali apprese culturalmente e linguisticamente che il vissuto corporeo diventerà emozione definita.

Un’analogia evidente si trova nella comunicazione interpersonale: prima ancora di capire le parole dell’altro, percepiamo se lo scambio ci fa sentire accolti o respinti, riconosciuti o ignorati. Questa lettura affettiva anticipa la comprensione concettuale e la informa orientando la nostra interpretazione del messaggio, delle intenzioni dell’altro, e del nostro ruolo nella relazione (metacomunicazione).

Un altro importante contributo di Barrett riguarda la cosiddetta “granularità emotiva”, ovvero la capacità di distinguere tra emozioni simili ma non identiche, come nel caso della differenza tra rabbia, irritazione e risentimento.

Tale granularità però, sebbene associata allo sviluppo del linguaggio emotivo, non dipende esclusivamente da esso. L’esperienza umana dimostra che anche attraverso canali non verbali (l’arte, il corpo, la musica, la danza, il sogno) possiamo riconoscere, esprimere e comunicare emozioni sottili e complesse.

Un pittore privo di un lessico articolato può rappresentare emozioni profonde con estrema precisione. Un terapeuta corporeo può cogliere variazioni minime nel tono muscolare o nella postura che rivelano cambiamenti interiori rilevanti.

Questi canali non solo trasmettono emozioni: partecipano attivamente alla loro costruzione. La granularità può dunque emergere anche da dimensioni simboliche e incarnate che ampliano la nostra capacità di sentire, anche in assenza di parole.

 

Concetti preverbali e posizionamenti impliciti

Entro questa visione quindi non tutti i “concetti emotivi” sono di natura linguistica. Alcuni sono preverbali, radicati in configurazioni corporee e in dinamiche relazionali implicite.

La teoria del posizionamento elaborata da Rom Harré suggerisce che, nella comunicazione, ciascun individuo si colloca lungo assi affettivi (positività/negatività ei confronti dell’interlocutore) e secondo dimensioni di potere, dovere e diritto.

Le emozioni, in modo analogo, agiscono come dispositivi posizionali: ci fanno sentire autorizzati ad agire, costretti a contenere, capaci o incapaci di opporci. Tali vissuti sono spesso accompagnati da ciò che Antonio Damasio ha chiamato “marcatori somatici”: segnali corporei che guidano la nostra risposta ancor prima che essa sia formalizzata in parole.

Riconoscere l’esistenza di “concetti emotivi preverbali” significa ammettere che vi sono forme di senso incarnato che strutturano il nostro vivere ancor prima che esse vengano concettualizzate.

Si tratta di vere e proprie micro-mappe affettive o schemi emotivi che anticipano e orientano decisioni, interpretazioni e comportamenti. Gli studi sulle euristiche decisionali, vedi ad esempio l’euristica dell’affetto di Slovic ma non solo, mostrano l’intervento emotivo nella presa di decisione come appunto avevano dimostrato, dal punto di vista neuropsicologico, anche gli studi di Antonio Damasio.

I sogni sono un esempio paradigmatico di linguaggio emotivo non verbale. In esso il cervello mette in scena, attraverso immagini, spazi, relazioni e simboli, emozioni attuali intrecciate con vissuti passati. La narrazione che emerge non è logica né necessariamente verbale: è una continuità simbolica che organizza l’identità nel tempo.

L’immagine, in questo contesto, rappresenta un ponte tra sensazione e significato. Essa permette una forma di elaborazione affettiva che non passa dal concetto astratto, ma da una figura sentita, riconoscibile e viva. Le immagini metaforiche sono più direttamente connesse alle emozioni rispetto al linguaggio puramente concettuale. Studi neuroscientifici (es. Barsalou) mostrano che comprendere un concetto implica simulare sensorialmente l’esperienza associata: le metafore visive e dinamiche evocano quindi esperienze incarnate, facilitando l’accesso a vissuti emotivi impliciti. La loro potenza emotiva le rende canali privilegiati per l’esplorazione del sé e per l’attivazione del cambiamento.

Le metafore che evocano movimento sembrano attivare le aree premotorie e motorie del cervello, gli stessi circuiti coinvolti nell’esecuzione e nell’osservazione delle azioni. Le metafore efficaci non si limitano a descrivere, ma mettono in scena. Generano immagini mentali che assomigliano a brevi sequenze visive, a “piccoli film”, più che a fotografie statiche. Queste immagini attivano l'immaginazione sensomotoria e ci permettono di percepire il mondo da prospettive nuove. Secondo Lakoff e Johnson, le metafore strutturano il nostro pensiero profondo e sono radicate nell’esperienza corporea. Pensare metaforicamente significa pensare attraverso il corpo e l’azione.

Il Sé, dunque, non si racconta solo con le parole, si sogna, si rappresenta, si sente.

La continuità del Sé non si fonda esclusivamente sulla coerenza narrativa in quanto linguistica, ma anche su esperienze emotive coerenti che si incarnano in gesti, immagini e forme di vita.

Questa prospettiva è ben espressa anche da Kahneman, che in Thinking, Fast and Slow e nei suoi scritti sull’economia della felicità, distingue tra un Sé esperienziale e un Sé che ricorda. Una distinzione affine si trova in Damasio, che contrappone il Sé nucleare, radicato nel presente corporeo, al Sé autobiografico, impegnato nella costruzione narrativa della continuità.

Nei suoi lavori più recenti, Damasio riconosce l’importanza delle tracce mnestiche e corporee nella costruzione del Sé. Non tutto è accessibile alla verbalizzazione: pattern somatici, segnali viscerali, sensazioni globali costituiscono uno sfondo silenzioso ma significativo.

In questa direzione si muovono anche altri autori: Eugene Gendlin, con il concetto di felt sense, mostra come la conoscenza tacita del corpo preceda il linguaggio, fornendo coerenza narrativa a partire da un sentire globale. Hubert Hermans include nel suo modello del Sé dialogico voci che non parlano in modo articolato, ma si esprimono attraverso posture, immagini, emozioni e desideri. Lakoff e Johnson, con la teoria della embodied mind, vedono nel corpo la radice del significato. Leslie Greenberg, infine, considera le tonalità emotive e le tensioni corporee come forme di narrazione incarnata, che precedono e sostengono la parola.

L'approccio qui proposto intende ampliare il modello costruttivista di Barrett integrandolo con contributi fenomenologici, simbolici e relazionali. In sintesi, le emozioni:

• emergono da un nucleo affettivo preverbale (valenza);

• si costruiscono attraverso parole, immagini, posture, sogni, interazioni;

• posizionano il Sé nelle relazioni interne ed esterne;

• riflettono e anticipano dinamiche di potere, dovere, diritto;

• sono veicolate da concetti preverbali incarnati, non solo da linguaggio;

• generano continuità e senso anche senza narrazione.

Questa visione amplia la comprensione della coscienza emotiva come fenomeno multimodale, dinamico e profondamente relazionale. Emozionarsi, in fondo, è un modo di abitare il mondo: con il corpo, con l'immaginazione, con la presenza, con la parola quando serve, ma anche senza.

  

Un possibile protocollo clinico

Alla luce di quanto esposto, propongo un modello operativo chiamato "Protocollo del Sé dialogico incarnato", utile in ambito clinico per accompagnare il paziente in un processo di integrazione narrativa, emotiva e corporea. Il presupposto è che il Sé non sia un’entità unitaria né una semplice costruzione discorsiva, ma una configurazione dinamica di voci, sensazioni, memorie e posizionamenti relazionali che interagiscono in forma dialogica. Quando queste parti smettono di comunicare o entrano in conflitto, l’esperienza soggettiva perde autenticità: la persona agisce guidata da una parte dominante mentre altre – spesso più vulnerabili o vitali – restano silenziate.In termini ACT, il Sé si disallinea dai propri valori e dalle direzioni di senso, generando una sensazione di estraneità da sé e dal mondo.Il protocollo si articola in quattro fasi principali, concepite come passaggi dinamici e interconnessi piuttosto che come una sequenza rigida.

1. Accesso al Sé corporeo-emozionale

La prima fase riguarda la radicazione dell’esperienza nel corpo. Il terapeuta invita il paziente a portare attenzione al sentire corporeo attraverso tecniche di ascolto profondo, come il focusing di Gendlin o brevi esercizi di consapevolezza sensoriale. L’obiettivo non è interpretare, ma sentire: riportare la parola al servizio dell’esperienza incarnata.

Ad esempio, di fronte a un paziente che racconta un evento doloroso con tono neutro, il terapeuta può chiedere:

“Mentre ne parla, cosa nota nel corpo, qui e ora?” Spesso un piccolo segnale, un respiro trattenuto, una tensione, un calore improvviso, riporta la narrazione dentro il vissuto, permettendo di riconnettere il discorso alla base sensomotoria dell’esperienza. È questo primo passo che apre l’accesso alla verità emotiva, fondamento di ogni processo trasformativo.

2. Emersione delle voci interne

Nella seconda fase il terapeuta favorisce l’emersione delle diverse voci del Sé, quelle che nel dialogo interiore restano spesso in conflitto o non comunicano tra loro. Ogni voce porta con sé un tono corporeo, un’emozione e una posizione relazionale. Quando una di esse prende il sopravvento, ad esempio la parte compiacente che tace o quella severa che giudica, il Sé perde autenticità e libertà di scelta.

Un modo efficace per rendere queste parti percepibili è il dialogo con la sedia vuota, reinterpretato in chiave dialogico-incarnata. Il terapeuta invita il paziente a spostarsi fisicamente da una sedia all’altra per far parlare, una alla volta, le parti in tensione.

Nel caso di un padre diviso tra il desiderio di essere amorevole e la necessità di mantenere l’autorità, il terapeuta può dire:

“Si sieda qui e dia voce alla parte che vuole accogliere suo figlio.” Il paziente parla con tono calmo, aperto. Poi il terapeuta lo invita a cambiare sedia: “Ora si metta nei panni della parte che sente di dover far rispettare le regole.” Il tono cambia, la postura si irrigidisce. Il terapeuta non interpreta ma invita a notare: “Com’è respirare qui? Cosa sente nel corpo rispetto all’altra sedia?”

Questo semplice movimento spaziale rende tangibile il dialogo interno. Quando le due voci possono guardarsi, la tensione si allenta e nasce una forma di riconoscimento reciproco: non c’è più una parte giusta e una sbagliata, ma due istanze legittime che imparano a dialogare.

3. Stabilizzazione e coerenza narrativa incarnata

La terza fase consiste nel dare coerenza narrativa all’esperienza, non come costruzione lineare, ma come integrazione tra corpo, emozione e immaginazione. Dopo che le parti del Sé hanno potuto esprimersi, il terapeuta aiuta il paziente a riunire le immagini e i vissuti emersi in una scena simbolica trasformativa, utilizzando l’imagery rescripting.

In questo lavoro, la mente immaginativa diventa uno spazio di negoziazione tra le parti. Ad esempio, nel caso del paziente con DOC che vedeva i rituali come gesti magici di autoprotezione, il terapeuta lo invita a ricontattare la scena originaria, quella del bambino spaventato che cercava di proteggersi.

“Immagini di essere oggi accanto a quel bambino. Cosa potrebbe offrirgli che allora non aveva?” Il paziente visualizza sé stesso adulto che gli pone una mano sulla spalla e gli dice: “Ora ci sono io, sei al sicuro.” Col tempo il gesto immaginario si semplifica, si fa corporeo, diventa un piccolo movimento protettivo che sostituisce i rituali. La paura non viene negata, ma riconosciuta e accolta dentro una nuova relazione tra parti del Sé.

In altri casi, come per il padre di prima, l’immagine trasformativa può consistere nel vedere sé stesso rivolgersi al figlio con fermezza e affetto insieme, unendo in una sola scena le due parti che prima agivano in opposizione. L’immaginazione non serve a “fantasticare”, ma a rielaborare affettivamente l’esperienza, dando una forma sentita alla riconciliazione interna che prepara l’azione nel mondo.

4. Passaggio all’azione coerente (agency incarnata)

La quarta fase rappresenta il passaggio dall’esperienza interna all’azione incarnata. Ciò che nel lavoro immaginativo era simbolico ora diventa gesto reale, atto quotidiano, linguaggio dell’agire. Il terapeuta aiuta il paziente a riconoscere e consolidare questi micro-atti, esplorando la qualità corporea e il significato che assumono nella vita concreta.

Nel caso del padre, la nuova immagine interna, un dialogo fermo ma non punitivo, si traduce nel comportamento reale: affronta una discussione senza alzare la voce, restando in contatto con la propria calma e il proprio valore di giustizia. Il gesto non è un esercizio di autocontrollo, ma l’espressione incarnata della riconciliazione tra le sue parti.

Analogamente, nel paziente con DOC, il piccolo movimento protettivo appreso in imagery diventa un atto quotidiano: un respiro, una pausa, una carezza simbolica che prende il posto del rituale. Il corpo diventa così testimone e garante del cambiamento, il luogo in cui la nuova organizzazione del Sé si radica e si rinnova.

Questa è la forma più profonda di agency: un'azione, ma non controllata o imposta, quella che nasce spontaneamente da un allineamento interno, in cui le parti del Sé cooperano invece di combattersi.

Conclusione

Il Protocollo del Sé dialogico incarnato propone una via per integrare, nel lavoro clinico, i contributi della psicologia costruttivista, fenomenologica e incarnata: dal corpo che sente, al dialogo tra le voci interiori, fino all’immaginazione che rielabora e all’azione che concretizza. Ogni fase rappresenta un livello del linguaggio emotivo: corporeo, relazionale, simbolico e pragmatico. Attraverso questo percorso, il paziente non si limita a “capire” le proprie emozioni, ma impara a parlarle e ascoltarle come voci vive della propria esperienza.

In tal modo, l’emozione riacquista la sua funzione originaria di linguaggio relazionale incarnato: non solo segnale interno, ma forma di comunicazione tra le parti del Sé e tra il Sé e il mondo. La trasformazione clinica diventa allora un processo di riappropriazione della propria presenza, in cui sentire, pensare e agire tornano a muoversi insieme, come un unico gesto vitale che dà continuità e senso all’esperienza di essere vivi.

 
 
 

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