Riflessioni per un modello terapeutico integrato
- Gabriele Campello

- 24 ago
- Tempo di lettura: 8 min
Aggiornamento: 9 ott

Introduzione
Negli ultimi anni molte prospettive terapeutiche hanno posto al centro della loro azione clinica il tema dei valori personali. Il messaggio implicito è semplice e seducente: se riesci a chiarire ciò che conta davvero per te e a orientare le tue scelte in quella direzione, troverai significato e stabilità interiore.L’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) ha reso questo approccio particolarmente strutturato, collegando la definizione dei valori a processi di azione impegnata e flessibilità psicologica. Tuttavia, nell’esperienza clinica, emergono presto due constatazioni: i valori, isolati dal resto dell’esperienza umana, non bastano; e ACT, pur con la sua forza, non esaurisce il compito.
Uno dei punti centrali di ACT è la defusione cognitiva: l’idea di imparare a non identificarsi con i propri pensieri. “Io non sono la mia mente” è un’affermazione liberante, ma rischia di restare ambigua se la “mente” viene intesa solo come il flusso dei pensieri indesiderati, separata dal corpo e dalla relazione con gli altri. Chi è, allora, il soggetto che osserva la mente? Se l’atto di osservare non viene radicato nella nostra interezza (corporea, relazionale, storica) si rischia di sostituire un’identificazione limitante con un’astrazione altrettanto fragile.
La questione si complica se allarghiamo lo sguardo alla pluralità delle teorie evidence-based oggi in circolazione. Ognuna si presenta come scientificamente fondata, ma spesso le loro premesse sul Sé e sul cambiamento si contraddicono.L’Internal Family Systems (IFS) concepisce un Sé centrale, armonizzatore, circondato da parti interne che a volte assumono ruoli archetipici. L’Emotion-Focused Therapy (EFT) valorizza le narrazioni emotive del passato, cercando di generare nuove esperienze trasformative senza necessariamente ristrutturare la posizione attuale della persona nel qui-e-ora. ACT, invece, propone di partire dai valori per scegliere azioni concrete, ma rischia di farlo in modo troppo “a freddo”, scollegato dalle tracce somatiche e relazionali che danno vitalità a quelle scelte.
Ciò che manca, in molte di queste impostazioni, è una comprensione piena del Sé come processo relazionale incarnato, in continuo divenire. Non un’entità fissa o una narrazione conclusa, ma qualcosa di più simile a un’equazione differenziale che integra, lungo la traiettoria di vita, le esperienze di senso e benessere, le crisi e le rinegoziazioni di identità. La ricerca scientifica multidisciplinare, dalla fenomenologia alla neuropsicologia, dalla psicologia sociale alla teoria dei sistemi dinamici, ci ricorda che non basta “avere valori” o “defondersi dai pensieri”: il Sé è co-costruito nei dialoghi, negli scambi concreti, nelle micro-scelte quotidiane che collegano desideri, vincoli e possibilità.
Se quindi vogliamo davvero che le terapie siano efficaci, non basta che “funzionino” secondo liste di controllo o esiti medi rilevati da studi standardizzati. Devono anche rispettare e integrare una base conoscitiva più ampia, capace di includere le intuizioni fenomenologiche sul vissuto, i dati neuroscientifici sul ruolo delle emozioni corporee come marcatori somatici, e le acquisizioni della psicologia culturale sul Sé come prodotto di interazioni. In questa prospettiva, l’obiettivo non è inseguire una felicità ideale, ma coltivare quello che potremmo chiamare benesserci: una condizione dinamica, relazionale, che si gioca nella connessione autentica con se stessi (in tutte le proprie parti) e con il mondo circostante.
Una bussola etico-pragmatica
ACT nasce con un’intenzione radicale: aiutare le persone a vivere una vita più significativa, non eliminando i pensieri o le emozioni scomode, ma coltivando la capacità di scegliere azioni coerenti con ciò che conta davvero. In questa cornice, i valori non sono obiettivi da raggiungere ma direzioni da seguire, coordinate che orientano il comportamento anche quando la strada è difficile.
Eppure, il modo in cui ACT definisce e lavora sui valori può risultare troppo “cognitivo” e distante dal vissuto immediato. Spesso la scelta dei valori avviene in un contesto riflessivo, tramite elenchi o esercizi di immaginazione (“che tipo di persona vuoi essere?”), che rischiano di produrre dichiarazioni astratte, scollegate dalla realtà attuale della persona e dalle sue possibilità concrete di azione. Questo approccio funziona bene per alcuni, ma per molti lascia un vuoto tra “ciò che dico di volere” e “ciò che effettivamente posso fare, sentire, incarnare”.
La fenomenologia ci invita a un passo diverso: partire dal qui-e-ora dell’esperienza, dalle tracce somatiche, dai vissuti emotivi e relazionali concreti, come porte di accesso a ciò che conta. Qui si colloca il contributo del sé dialogico, che vede l’identità come un insieme dinamico di “voci” o posizioni del Sé, in dialogo costante tra loro e con il mondo. In quest’ottica, i valori non sono entità stabili, ma direzioni emergenti dall’interazione tra parti diverse di noi, alcune radicate nel passato, altre proiettate nel futuro, altre ancora ancorate al presente.
Integrare ACT con questa visione significa non chiedere solo “quali valori scegli?”, ma anche “quale parte di te sta parlando adesso?”, “quale altra parte potrebbe avere voce in capitolo?”, “come si sentono queste parti quando pensano di muoversi in una direzione?”. In questo modo, la definizione dei valori diventa un processo incarnato, relazionale e flessibile.
Qui entra in gioco anche il concetto di ecological rationality (Gigerenzer): nelle decisioni quotidiane, il nostro sistema cognitivo si affida spesso a euristiche: scorciatoie che sfruttano le strutture dell’ambiente per ridurre il costo cognitivo. Alcune di queste euristiche si fondano su marcatori somatici, segnali corporei che possono indicare se una scelta è “buona” o “rischiosa” per noi, in quel contesto specifico. Un lavoro terapeutico attento può aiutare la persona a riconoscere e allenare quei segnali corporei che sostengono comportamenti coerenti con i propri valori, trasformandoli in abitudini a basso costo energetico e quindi più stabili nel tempo.
Questo approccio porta a una bussola etico-pragmatica che opera su più livelli:
1. Cornice di significato: Ogni azione e valore viene letto alla luce del contributo che porta al senso complessivo della vita della persona, nel suo contesto relazionale.
2. Cornice di autenticità: I valori scelti devono risuonare con parti autentiche del Sé, non con maschere o adattamenti puramente difensivi.
3. Cornice di flessibilità: La direzione di vita deve poter essere modulata per adattarsi ai cambiamenti di contesto e alle nuove scoperte di sé, evitando rigidità che portano frustrazione.
4. Cornice di sostenibilità: Le azioni coerenti con i valori devono avere un costo compatibile con l’equilibrio complessivo tra diverse aree della vita, evitando che l’impegno verso un valore ne sacrifichi altri in modo irreversibile.
In sintesi, ACT fornisce un impianto solido, ma la fenomenologia e il sé dialogico lo ancorano all’esperienza viva, mentre l’ecological rationality offre strumenti per trasformare le scelte di valore in abitudini sostenibili e radicate nei segnali corporei. Questa integrazione costruisce un metodo che non si limita a “scegliere valori e agire”, ma accompagna la persona a vivere i valori nel corpo, nelle relazioni e nel tempo, con una direzione chiara e un passo che può davvero sostenere.
Dalla teoria alla pratica
Tradurre questa integrazione in un lavoro clinico significa accettare che non esiste una linea retta dal “sapere cosa conta” al “vivere ciò che conta”. Il processo richiede cicli di esplorazione, verifica e aggiustamento.
Il primo passo non è la definizione di valori in astratto, ma un contatto diretto con ciò che, nel corpo e nella mente, risponde al mondo. È in questa fase che si abbandona l’idea di un elenco di ideali da selezionare a freddo: il terapeuta guida la persona verso un’esplorazione incarnata, che può partire da stimoli semplici ma evocativi. Una lista di parole, ad esempio, non come esercizio cognitivo, ma come grimaldello sensoriale: l’invito è a notare quali parole “si accendono” dentro, quali fanno vibrare qualcosa: un’immagine, un ricordo, una tensione muscolare, un respiro che cambia.
Questo è già un momento trasformativo: la persona inizia a distinguere tra il “pensare a cosa dovrei volere” e il “sentire ciò che mi riguarda davvero”. A partire da queste parole-colpo, si passa alla formulazione di frasi che collegano direzione di valore e modo di agire: “Essere coraggioso affrontando mia madre”, “Coltivare calma nei momenti di conflitto con mio figlio”. In questa connessione tra sostantivo (valore) e verbo (azione) si getta un ponte tra la spinta motivazionale e la realtà concreta in cui dovrà essere agita.
Qui il contributo del sé dialogico è fondamentale: il terapeuta può chiedere “quale parte di te pronuncia questa frase?” o “chi, dentro di te, si oppone o si spaventa davanti a questa direzione?”. Questo apre a un lavoro di riconoscimento e negoziazione tra parti diverse, evitando che il valore scelto sia imposto da un’unica voce interna dominante e non condiviso dal resto del sistema personale.
Una volta emersi valori incarnati e dialogati, si passa a un momento di verifica di coerenza e sostenibilità. Qui entrano in gioco le cornici:
· Il valore scelto alimenta davvero un senso di significato nella tua vita, o è un dovere appreso?
· È autentico, cioè in risonanza con parti di te che senti vitali?
· È flessibile, cioè modulabile se il contesto cambia?
· È sostenibile, cioè può essere perseguito senza sacrificare eccessivamente altri valori centrali?
Questa fase non è un filtro punitivo, ma un test di realtà: un valore che passa queste domande diventa più robusto, pronto a essere tradotto in comportamenti ripetuti.
Infine, il passaggio cruciale: dall’azione isolata all’abitudine. Qui ACT tradizionale spesso lascia uno spazio vuoto, limitandosi all’impegno nell’azione. L’integrazione con l’ecological rationality e i marcatori somatici offre un passo in più: aiutare la persona a riconoscere nel corpo i segnali che accompagnano un’azione coerente con i valori, e a usare questi segnali come rinforzi naturali. L’obiettivo è creare euristiche comportamentali che riducano lo sforzo deliberativo, permettendo alla coerenza valoriale di diventare una tendenza spontanea.
Il ciclo si chiude, e ricomincia, con la possibilità di rivedere valori e azioni alla luce delle nuove esperienze. La bussola etico-pragmatica, a differenza di un elenco di valori statici, è uno strumento vivo: si aggiorna, si ricalibra e continua a orientare, anche quando la persona attraversa cambiamenti profondi.
L’etica come cornice
C’è un aspetto che molte terapie, anche quelle centrate sui valori, trascurano o trattano solo implicitamente: la dimensione etica. Non nel senso di una morale imposta dall’alto, né come elenco di virtù da perseguire per dovere, ma come condizione strutturale della vita in relazione.
La definizione stessa di “negoziazione” nei contesti di mediazione o cooperazione, ad esempio, contiene spesso il riferimento al “mutuo vantaggio”. È un’espressione che può sembrare retorica, ma in realtà mette a fuoco una dinamica concreta: nelle relazioni, i comportamenti che massimizzano solo il vantaggio individuale, riducendo quello altrui, tendono a impoverire la “ricchezza condivisa” del sistema relazionale. Qui emerge il concetto, ben noto nell’economia comportamentale, di “trappola della razionalità locale” (Barry Nalebuff e altri l’hanno illustrato anche attraverso il celebre esperimento del dollaro all’asta): scelte che appaiono razionali e vantaggiose in un orizzonte ristretto possono, a lungo termine, produrre perdite maggiori rispetto a strategie cooperative.
In terapia, questa logica può tradursi in una riflessione importante: le azioni coerenti con i propri valori ma che erodono la fiducia, la sicurezza o le risorse dell’altro rischiano di generare debiti futuri, sia relazionali che emotivi. Un esempio semplice: ottenere un vantaggio in una relazione sentimentale agendo in modo non trasparente può, nell’immediato, sembrare funzionale; ma l’impatto prevedibile (la perdita di fiducia del partner) può generare costi emotivi e pratici superiori al guadagno iniziale.
Da qui l’esigenza di includere nelle cornici dei valori alcune “etichette minime” relazionali: integrità, trasparenza, reciprocità di beneficio. Non si tratta di imporre una visione etica universale, ma di riconoscere che, in un contesto interdipendente, il rispetto di tali principi aumenta le probabilità di benessere sostenibile sia per sé sia per gli altri.
Questa prospettiva è coerente anche con approcci come il Sé dialogico di Hubert Hermans, che riconosce identità plurime non solo all’interno dell’individuo ma anche in relazione a gruppi, specie, ambiente. Le nostre decisioni, quindi, non parlano solo per il “sé individuale”, ma anche per il “sé come membro”: della coppia, della famiglia, della comunità umana, e persino della rete ecologica di cui facciamo parte.
Integrare questa dimensione etica nella bussola etico-pragmatica significa dotarsi di un orientamento che non solo evita danni prevedibili, ma aumenta la probabilità che le azioni radicate nei valori diventino, nel tempo, anche azioni fertili: capaci di generare legami, fiducia e risorse condivise. In questa ottica, l’allineamento tra valori personali e “etichette minime” non è una limitazione, ma un’estensione del potere trasformativo dell’azione, perché assicura che il benessere perseguito non sia fragile, ma integrato in un tessuto relazionale più ampio e resiliente.




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